Mercoledì 3 ottobre ci è stato presentato il progetto “Itaca”, percorso che svilupperemo durante l’anno scolastico. Sarà per la portata delle tematiche trattate, sarà per lo charme e la grande arte oratoria della prof. Elisabetta, sarà per qualsivoglia motivo ma a me, ciò che è stato detto, ha colpito particolarmente. Si è parlato di grossi temi quali la felicità, il senso della vita, la sete d’infinito e la ricerca costante di un di più; insomma non “cosucce”. Il lavoro propostoci, esposto in un power point, girava attorno la figura di Ulisse. Chi era questo personaggio (oltre ad essere il protagonista di una delle opere epiche più importanti di sempre)? Era un uomo ed, in quanto tale, provava dolore, gioia, tristezza, amore e molto altro. Amore verso il figlio che non ha potuto veder crescere, verso la moglie che è stato costretto ad abbandonare e verso la propria patria, la sua amata Itaca, da cui si è dovuto distaccare per andare a conoscere, sulla sua pelle, le atrocità della guerra. Fra le sue molteplici peripezie, ci siamo soffermarti su una in particolare: la prigionia dorata presso l’isola di Ogigia, sotto la splendida ninfa Calipso. Lei gli avrebbe potuto dar tutto ciò che ogni uomo desidera: l’affetto di una bella donna, la privazione di ogni sofferenza e dolore ma soprattutto l’immortalità. E cosa ha fatto lui? Ha rifiutato la generosa offerta e, combattendo i suoi contrasti interiori, Ulisse è ripartito per tornare ad Itaca da tutto ciò che gli era più caro. Abbiamo riflettuto su questa sua decisione facendo un paragone con un altro personaggio, protagonista di un racconto di Buzzati che abbiam letto subito dopo. Il suddetto era un imprenditore che aveva speso tutta la sua esistenza per avere una bella carriera. Aveva lavorato sempre e raggiunto ogni suo scopo (con ogni mezzo), si era guadagnato un bel patrimonio e prima di passare a “miglior vita” aveva lasciato la giusta eredità od ogni figlio e ”sistemato” la moglie. Morto, si ritrova in una città perfetta, un’Ogigia moderna, dove gli vengono consegnate le chiavi della sua nuova reggia con tanto di servitù ed ogni oggetto desiderabile. Vi è tutto, anche “donnine” affascinanti, non manca nulla ai suoi occhi: nessuno prova emozioni negative. È il posto per lui, pensa, se lo era meritato avendo sudato tutta una vita per la sua occupazione; finché in un bar, un giovane alquanto tormentato, gli fa aprire gli occhi: non si trovava in paradiso, come credeva, ma all’inferno. Perché, quello spettacolo di paesetto avrebbe dovuto essere l’inferno e soprattutto, perché c’erano così tanti uomini rispettabili, grandi lavoratori? Quello è il posto di chi non ha mai amato nessuno se non la propria persona e le futilità materiali; quella è la loro condanna: come essi in vita non provarono né affetto e né pietà verso i propri simili, così sono destinati eternamente ad un’esistenza priva di felicità e dolore, gioie ed ostacoli. Insomma, l’opposto di Ulisse che ha rifiutato una vita del genere per riappropriarsi della sua, nonostante le mille prove che la caratterizzavano.
Penso che il suo sia un vero e proprio modello da seguire durante il corso del tempo. Perché, a volte, ciò che veramente conta è vivere, mettersi in gioco e non lasciarsi catturare dalle comodità che ci annebbiano la vista e che ci discostano dalla naturale necessità umana di un’esistenza piena. Spesso cado in questa tentazione, anzi, quasi ogni giorno! Nella frenesia degli impegni quotidiani, per evitare di andare avanti per inerzia, come un automa, ciò che dovrei fare è fermarmi a riflettere sulla motivazione che mi spinge ad alzarmi, ciò per cui vale la pena combattere insomma…cos’è? Qual è lo scopo della mia vita? Se ne avessi la risposta non esisterebbe la filosofia, ovviamente. So solo che farei dei piccoli/grandi sacrifici per la mia famiglia, scavalcando gli ostacoli che essa ha; potrei persino mettere da parte l’orgoglio, con non poca difficoltà, per accettare ed amare un cuore amico oppure, dopo pranzo, sforzarmi d’aprire i libri scolastici e studiare le materie che più mi scocciano. Non è affatto semplice: ogni cosa ha il suo peso, dal formarsi una cultura all’amore. Perché farlo, dunque, se è così complicato? Nonostante il limite oggettivo della fatica, è pur vero che ogni cosa ha il suo valore, un valore che non capiremmo se non lottassimo e se non ci guadagnassimo quella singola realtà, opera, azione o gesto. Non mettendoci in gioco, non prendendo delle decisioni, non vivendo ma lasciandoci vivere, iniziamo a dare tutto per scontato, persino gli affetti a noi più cari, e cadiamo nella noia che poi si trasforma in cinismo ed apatia. Da protagonisti diventiamo spettatori di una vita che non ci appartiene più. Questa, penso sia la situazione più triste che possa accadere ad una persona ed io non voglio cadere in questa trappola. Ve ne sono sfuggita per miracolo grazie ad incontri speciali che mi han fatto comprendere l’amore che Dio prova per me ed ogni singolo individuo su questo pianeta.
Judit Bernardini, V liceo delle Scienze Umane
Comments