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L’arte ci spalanca all’eternità

Gli animali non scrivono poesie, non dipingono quadri, non piangono per i propri simili che muoiono. Se c’è qualcosa che ci contraddistingue come uomini è l’arte.

Questo vaso greco realizzato quasi tremila anni fa fu creato per esprimere il dolore di una persona cara morta, una donna. Sporgeva dalla tomba, come fosse una lapide; dentro il collo venivano versate le libazioni rituali, cibi offerti in sacrificio perché il defunto potesse in qualche modo stare ancora a banchetto con noi.

Se c’è qualcosa che ci fa uomini è il desiderio struggente perché la morte non ci strappi dai nostri cari, dalla vita: che il respiro della vita non abbia fine. Tutto questo ha avuto compimento nelle parole di Colui che ha detto: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna». (Gv 6,54) Morendo in croce ci ha donato la sua vita divina, sacrificio che ogni Eucarestia rinnova.

Don Giorgio Carini, insegnante di storia dell’arte

Anfora funeraria a figure nere (Anfora del lamento funebre) ca. 760-750 a.C. Terracotta, altezza 155 cm. Dalla necropoli del Dipylon di Atene. Atene, museo Archeologico Nazionale.

Il vaso del lamento funebre fu ritrovato nella necropoli di Atene. Risale all’ VIII secolo a.C.

Lo scopo di questi grandi vasi era quello di contenere vivande, per poter una volta ancora banchettare con i propri defunti. Erano sotterrati nel terreno fino all’ inizio del collo e veniva lasciata la bocca aperta, dove venivano riposti i cibi. Nello specifico questo vaso era di una ricca donna, lo si può capire dai precisi ornamenti di carattere geometrico nella parte centrale, che rappresentano il suo rito funebre. La sua salma è scortata da un manipolo di uomini armati e da un gruppo di donne. La speranza dei riti fatti con questi vasi era di non separarsi mai dalla persona morta.

Davide Mozzoni, III Liceo

Anfora del lamento funebre: dettaglio della scena del lamento funebre

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